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Incontro nei gesti di cura


Sono rimasta profondamente colpita da un filmato che ho visto in questi giorni, “Venere Nera” di Abdellatif Kechiche, dove, in una scena, l’anatomista Cuvier si approccia al corpo della “venere” non curante dei sentimenti, emozioni ed il vissuto che può provare la stessa. Non vi sono barriere per la scienza e per lo sviluppo scientifico.

Riflettendo sulla proiezione mi è tornato in mente, che anche lo studente nelle professioni di aiuto nei suoi primi tirocini è portato a sperimentare ed affinare la tecnica, trascurando la corporeità altrui, approcciandosi quasi con superficialità nei confronti dell’assistito. Questa situazione con il passare del tempo viene superata con la formazione esperienziale e con il raffronto a volte turbolento tra la propria storia di operatore di cura e quella dell’assistito come malato.

La pratica clinica sottintende necessariamente un contatto con il corpo dell’altro, contatto che può essere inteso in più modi, tra cui quello visivo e quello fisico.

Le società occidentali nel corso del tempo hanno operato una scelta di predilezione nei confronti della distanza fisica tra i corpi e quindi, allo steso tempo, privilegiato il contatto tra essi a livello visivo.

Lo sguardo è la prima forma d’incontro che avviene tra due sconosciuti: prima ancora della parola, prima ancora di un saluto o di una stretta di mano, gli occhi prendono coscienza della corporeità altrui (Le Breton, 2007).

Questo succede anche ogni volta che il professionista incontra il paziente nella sua camera o, prima ancora, quando lo vede entrare in reparto o entrando nella sua abitazione. Non appena il suo sguardo si sofferma sull’utente, si crea un giudizio iniziale nella mente dell’operatore, un pre-giudizio che lo accompagnerà per tutto il periodo di degenza o trattamento domiciliare, durante la quale, questo, potrà essere confermato o meno. È pur vero che tale processo non è a senso unico: anche la persona ricoverata, o che richiede assistenza domiciliare, formula un proprio giudizio nei confronti di ciascun operatore, con cui entra in contatto primariamente attraverso i suoi occhi. Entrambi gli attori così fanno proprio ciò di cui fino ad un istante prima non conoscevano nemmeno l’esistenza. In questi casi si può dire che il senso della vista precede quello del tatto determinando nelle prime occasioni un incontro forse meno intimo, ma senza dubbio indelebile.

La modalità con cui l’operatore deve sviluppare il proprio modello di contatto visivo deve essere modulata dalla specificità della persona che incontra, perché in base a questa cambia abissalmente la valenza dello sguardo.


Chi lavora nell’ambito della psichiatria sa bene, infatti, che alcuni malati vivono con disagio l’essere guardati, come se gli occhi dell’altro fossero mani che toccano il loro corpo, che lo pizzicano e lo “scarruffano”, che ci frugano dentro senza possibilità di schermarsi. D’altra parte, alcuni pazienti avanzano quasi la richiesta di essere guardati, soprattutto coloro dotati di scarsa autostima, come per aver conferma della propria esistenza seguendo la logica secondo cui se viene loro rivolto lo sguardo significa che ci sono, che sono, che esistono (Laing, 1969).

A livello comunicativo infatti gli sguardi svolgono molteplici funzioni, tra cui:

  • controllo, procurando un feed-back all’altro attore della comunicazione su come il messaggio da lui inviato è stato ricevuto;

  • presa in carico, dato che il guardare un’altra persona ha la valenza di rivolgersi ad essa, di dedicarsi, per quei momenti di contatto, completamente a lei;

  • vicinanza, se è vero che il contatto visivo aumenta nei casi di atteggiamento positivo nei confronti dell’altro e diminuisce nei casi di atmosfere negative o di imbarazzo (Redigolo, Kaldor, Illica Magrini, 1983).

Il contatto visivo che si stabilisce quando due individui si fissano reciprocamente è determinato nei significati da variabili quali la durata degli sguardi, la frequenza con cui essi sono rivolti e interrotti. La disponibilità dell’operatore nei confronti della persona è accompagnata, ad esempio, da un approccio di durata opportuna e non sfuggente.

Il modo in cui si concepisce la corporeità dell’altro è reso manifesto anche dalle posture assunte dai corpi stessi durante il contatto visivo: in ambito sanitario sono molte le situazioni in cui il paziente si trova fisicamente in una posizione più bassa rispetto all’operatore (persone stese o sedute sul letto o costrette su una sedia a rotelle, ecc.). Se, nel nostro caso, l’operatore mantiene il proprio corpo a un livello superiore rispetto a quello del malato in questione, che ne sia consapevole o no, i propri occhi non potranno che trasmettere un atteggiamento interpretabile come autoritario, assegnando all’altro il ruolo del “sottomesso” (Redigolo, Kaldor, Illica Magrini, 1983).

Gli sguardi, o meglio le modalità con cui si guarda, sono quindi indice delle differenze di potere e di status sociale; possono essere l’opportunità più o meno consapevole di costruire una gerarchia tra i corpi, di definirne l’atteggiamento reciproco.

Che i corpi esistano è un dato di fatto, ma questa realtà sembra essere poco accettata. È come se ammettere che ognuno di noi ha un corpo implichi degli obblighi verso se stessi e l’altro, troppo pesanti da poter garantire. Come difesa da questo carico troppo grave da sopportare, vengono celebrati un insieme di riti sociali allo scopo di allontanare il più possibile il momento di presa di coscienza della corporeità altrui.

L’auspicio più comune della maggior parte degli sconosciuti in piedi in un ascensore è quello di passare inosservati, tutti in piedi accanto ma trasparenti di fronte all’altro. E se malauguratamente, per sbaglio, avviene un contatto, due braccia si sfiorano, vengono subito messi in atto una serie di comportamenti verbali e dell’agito mirati a chiedere scusa. Tutto ciò perché il silenzioso accordo di trasparenza si è improvvisamente rotto.

È così manifesta una continua ricerca della distanza costruendo il tabù del contatto fisico con lo sconosciuto, l’altro (Le Breton, 2007).



Tale situazione cambia se è l’ambiente a richiedere l’incontro con il corpo dell’altro, a determinare una sorta di fusione di tanti corpi insieme. La persona immersa tra migliaia di sconosciuti nella folla di un concerto ritrova lì la sua dimensione più comunitaria; in questo caso i limiti del suo corpo si dissolvono, così come quelli di tutti gli altri corpi ammassati intorno a lui, promuovendone la fusione. L’imposizione della trasparenza del corpo è qui sospesa e il contatto e la prossimità fisica non creano disagio.

La valenza che ognuno dà a un determinato contatto fisico tra il proprio corpo e un altro è ovviamente determinata dalla cultura, dal sesso, dall’età e dalle relazioni sociali tra gli attori del contatto (Argyle, 1975).

Heslin suggerisce una classificazione dei contatti corporei basata sul motivo del contatto:

  • funzionale/professionale

  • sociale

  • amichevole

  • intimo/affettuoso

  • sessuale (Heslin, 1974).

Il primo tipo di contatto qui identificato è quello che più direttamente interessa gli operatori sanitari, tra cui, senza dubbio, quello dell’OSS e dell’infermiere che prevede un gran numero di attività impossibili senza il tatto o diverse forme di contatto corporeo.

È interessante come, proprio per questa caratteristica, l’infermiere o altre figure ad esso similari siano state, nel corso della storia, considerate di basso livello o meno importanti di chi invece delle mani usava la voce. Il contatto con il sangue o con i liquidi biologici della persona definiva l’impurità e contrassegnava il lavoro che lo determinava come umile e umiliante. In base alla distanza con cui le proprie attività portavano a rapportarsi con il corpo dell’altro si costruiva una scala gerarchica in cui la posizione più prestigiosa era rivestita da chi si manteneva più lontano dal corpo altrui (Le Breton, 2007).

Seppur molte cose siano cambiate, esiste ancora oggi una discriminante tra il contatto fisico ricercato dal medico e quello dell’infermiere od altri operatori sanitari.

Il medico tocca perché vuole sapere: le mani sono appendici della sua conoscenza e le sue dita chiavi che aprono porte. Non esistono barriere fisiche o emotive e anche se ci fossero, queste scompaiono magicamente. Ciò̀ non significa che tra i due non possa esistere una relazione più intima, a carattere amicale, che includa anche un contatto corporeo tra una persona e l’altra, ma certo non tra il medico in quanto medico e il paziente in quanto paziente: il primo tocca il corpo del secondo e non la sua persona.

L’operatore sanitario, invece, non vuole scoprire segreti: toccando il corpo della persona li conserva e lo avvolge in una barriera che lo possa contenere e proteggere. Anche in questo caso non necessariamente i contatti fisici sono frutto di compassionevoli sentimenti nei confronti dell’altro, ma piuttosto sono studiati, discussi, razionalizzati come risultato della professionalizzazione delle cure.

Il contatto con il corpo dell’altro deve essere considerato terapeutico dall’operatore, durante il quale egli somministra se stesso alla persona che cura, e non solo al suo corpo. Gli è richiesta una <<competenza corporea, ossia la capacità di usare il proprio corpo per mettere in atto le terapie previste>> (Mortari, 2006). L’obiettivo di tale intervento è quello di restituire al malato la sua relazione abituale con il mondo, supplendo alle carenze patologiche ed esistenziali che la malattia comporta.

Dalla concezione ormai sorpassata di assistenza come forma di carità, le cure, che includono necessariamente l’incontro tra i corpi, sono oggetto di riflessione, studio e scienza facendo così dell’operatore uno specialista dell’intervento nell’essere-al-mondo del soggetto malato. E le cure non sono appunto altro che questi interventi specialistici. Una simile rappresentazione del contatto tra il corpo dell’operatore e quello del malato è resa possibile dalla forte valenza comunicativa che possiede. Secondo Heslin, il contatto professionale è privo, sul piano teorico, di significato sociale.

Nell’esperienza assistenziale però ciò risulta vero solo in minima parte: le manovre tecniche che prevedono contatto con il paziente, infatti, non sono oggetto di giudizio morale da parte della società, ma ugualmente le modalità di svolgimento delle stesse risentono ampiamente del contesto relazionale in cui vengono effettuate e allo stesso tempo influiscono in modo preponderante sulla qualità e l’evoluzione della relazione interpersonale(Redigolo, Kaldor, Illica Magrini, 1983).

Tale importanza comunicativa è dimostrata dai deficit relazionali che si determinano in caso di contatto corporeo viziato. Talvolta, infatti, dall’antitesi tra il modello del corpo sano (di alto valore) e quello del corpo malato (di basso valore), esasperata tra l’altro dai media della società contemporanea, possono derivare la difficoltà e il disagio di molti operatori nello stabilire un contatto corporeo con i pazienti, che adottano quindi un modello comportamentale stereotipato per qualsiasi tipo di contatto. In questi casi l’incontro non è tra persone ma tra corpi, non sarà l’operatore X a medicare il signor Y, che riporta una lesione all’arto inferiore, piuttosto la mano dell’operatore a toccare l’arto del paziente; non sarà un contatto terapeutico ma tecnico, generalizzato e impersonale, con nessuna valenza comunicativa. L’unico effetto che produce, è una svalutazione dell’immagine di sé del malato, a differenza di quando quest’ultimo avverte che quel contatto, anche se concentrato solo su un arto, ha il significato di una relazione d’aiuto per la quale l’operatore usa tutto il proprio corpo (Redigolo, Kaldor, Illica Magrini, 1983).

Nel pensare comune l’intimità è inversamente proporzionale alla distanza tra un corpo e l’altro: più due corpi sono vicini, più il loro incontro è considerato intimo.

Ma tra coloro che abitualmente incontrano corpi degli altri nemmeno il contatto fisico sembra rientrare tra gli elementi caratteristici di una prossimità tanto stretta, a meno che non riguardi zone particolari del corpo.

A quanto pare, infatti, solo alcuni distretti fisici sono degni di una connotazione intima, solo quelli che se la sono comprata al prezzo di rimanere nascosti. È il corpo coperto ad essere considerato bisognoso di maggior protezione e riparo, per accedere al quale solo la familiarità o un tacito permesso socio-professionale possono intercedere. Le attività del corpo che riguardano queste parti <<non vengono citati nei racconti di vita tradizionali, nelle biografie o nei romanzi, per la paura di mancare di gusto>> (Le Breton, 2007); il corpo viene così cancellato, lasciato sottinteso nelle sue parti che riguardano strettamente il saper vivere. Anche la conversazione intorno al corpo è organizzata secondo la regola che ne preferisce citare le parti nobili (il cervello, le mani, gli occhi) ed evitare invece quelle che in realtà lo fanno essere <<aperto al mondo o come se stesso nel mondo>>(Le Breton, 2007) ( bocche, organi genitali, seni, grossi ventri).

Esistono comunque differenze culturali che influiscono sull’estensione della sfera considerata intima intorno ad ogni corpo: in Occidente, ad esempio, la distanza intima è tanto quanto la lunghezza di un braccio teso; nel mondo arabo quest’area diminuisce, ritenendo lo spazio intorno al corpo sacro e inviolabile. È evidente, quindi, che la soglia del pudore varia sostanzialmente da un gruppo umano all’altro, ma anche tra una contingenza e l’altra.

Nella nostra società, infatti, nel contesto ospedaliero il tabù della nudità viene perlopiù raggirato. Persone che nella vita di tutti i giorni si preoccupano di mantenere intatto il loro stato pudico e decoroso, permettono, più o meno volentieri, che quelle barriere atte a garantire una certa intimità e protezione, quali la distanza fisica o gli indumenti, siano abbattute da altri, che hanno questo potere reso lecito dal ruolo professionale che rivestono. E se dovesse accadere che la persona prova vergogna di fronte a un medico che mentre si lava le mani le dice: “Si spogli e si metta sul lettino”, questa si costringe immediatamente a ricoprire il ruolo di paziente, per il quale è normale, se non necessario, mostrare le proprie nudità a colui che sa del suo corpo più della persona stessa ed è per questo autorizzato a vederlo in ogni sua forma e manipolarlo.

L’imbarazzo e il pudore in questi casi sono quasi socialmente ritenuti sintomo di arretratezza culturale, segno di una chiusura mentale poco adatta alla moderna scienza.

Tale successione di eventi riguarda anche il contatto corporeo tra l’operatore e il suo assistito, o forse no. Probabilmente no, perché come esposto nel paragrafo precedente, l’incontro tra questi due attori non consiste solo in un contatto tra corpi, ma anche e soprattutto in uno tra persone.

Le cure assistenziali non tendono a cancellare il corpo dell’altro durante il contatto fisico, ma lo conservano insieme a tutto il sistema di valori in base al quale si comporta e prova emozioni. I famosi interventi mirati ad avere privacy nella relazione con il paziente non sono fini a sé stessi, ma rinforzano il significato di ciascuna manovra attuata sul corpo del paziente caricandola di un significato altro rispetto alla fredda procedura tecnica.

L’intimo è “il più interno, il più profondo, il più riposto, il più segreto, il più vero”. Un livello così autentico di rapporto interpersonale non può essere certo relegato soltanto al contatto fisico con quelle parti poco esposte del corpo.

Il contatto visivo dà la possibilità reciproca di scoprirsi: lo sguardo si impadronisce del viso e della corporeità dell’altro spingendo a concludere sulla sua intimità e sul piacere, presente o meno, che deriva dallo scambio in atto (Le Breton, 2007).

Medicina che demolisce o che costruisce?

A partire dal giuramento di Ippocrate fino ai più moderni codici deontologici delle professioni sanitarie, due dei principi etici fondamentali sono quelli di:

  • non maleficità (“primum non nocere”)

  • beneficialità (IPASVI, 2009).


Questi principi, che ormai regolano l’attività di ogni professionista in campo sanitario, stanno a significare in primo luogo che nessun atto terapeutico in quanto tale deve arrecare danno alla persona che lo subisce e in secondo, per quanto sia possibile, deve apportare dei cambiamenti in meglio sul suo stato di salute.

Ma ci sono alcune situazioni in cui, pur garantendo l’adempimento dei suddetti principi, si pone in essere un singolare paradosso per cui la cura prescritta per sanare, allo stesso tempo distrugge. Un po’ più semplicisticamente il popolo direbbe che la medicina che cura da una parte, fa ammalare dall’altra.

È il caso, ad esempio, delle terapie immuno soppressive indispensabili in seguito al trapianto di un organo: è come se annientassero il corpo o parte di esso allo scopo di proteggerlo, risultando in effetti distruzione per essere terapia.

Le scelte della medicina, rispetto al corpo, in questi casi stanno in bilico tra aiuto ed annientamento, garantendo un equilibrio molto spesso precario. Io ricordo molto bene l’approccio che ho avuto durante il mio primo tirocinio in ospedale e devo dire che mi trovavo molto in difficoltà nell’approcciare il malato, la tecnica fatta nelle aule prendeva il sopravvento e doveva essere elemento di perfezionamento, anche se via via che il tempo passava mi cominciavo a rendere conto che ogni mio gesto, ogni mio comportamento aveva un significato che veniva interpretato dall’altro. La paura aveva inibito la comunicazione soprattutto quella non verbale, fatta di sguardi, gesti e posizione spaziale, perché ancora carica di inesperienza.


 



BIBLIGRAFIA:

  • ARGYLE M., 1975, Bodily Comunication. Tr. It. Il corpo e il suo linguaggio: studio sulla comunicazione non verbale, Bologna, Zanichelli.

  • HESLIN R., 1974, Steps towards a Taxonomy of Touching, Relazione presentata al Convegno della W estern.

  • IPASVI, 2009, Il Codice Deontologico dell’Infermiere.

  • LAING R., 1969, The self and others, Tr. It. L’io e gli altri, Firenze, Sansoni.

  • LE BRETON D., 2007, Anthropologie du corps et modernità. Tr. It. Antropologia del corpo e modernità, Milano, Giuffè.

  • LIPPI D., 2002, Storia della medicina: per il corso di laurea triennale per infermieri, Bologna, CLUEB.

  • MORTARI L., 2006, La pratica dell’aver cura, Milano, Mondatori.

  • NANCY J.L., 2000, L’intruso, Napoli, Cronopio.

  • REDIGOLO D., KALDOR K., ILLICA MAGRINI R., 1994, Il processo comunicativo nella relazione d’aiuto, Firenze, Rosini.

FILMOGRAFIA:

  • ABDELLATIF K., La venere nera, 2010 Lucky Red




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